“Non Spegniamo lo Spirito! Non neghiamo la profezia!” – Omelia della Messa crismale di don Bruno Forte, Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto

+ Bruno Forte

Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto

 

 

Non spegniamo lo Spirito!

Non neghiamo la profezia!

Omelia per la Messa Crismale

Giovedì Santo, 21 Aprile 2011

 

 Miei carissimi Sacerdoti e Diaconi,

carissimi Religiosi e Religiose,

carissimi Fedeli tutti!

Per introdurre il tema cui desidero dedicare l’omelia di questa Messa Crismale, parto da alcune parole, tratte dal romanzo Il nomade (Feeria, 2010, 298s) di Mons. Giuliano Agresti, l’Arcivescovo di Lucca morto nel 1990, lasciando in quanti lo conobbero il ricordo di una fede e di una carità vissute fino alla misura della santità. Il protagonista del racconto è un uomo che nella maturità dell’esistenza decide di vivere da nomade, muovendosi su una povera bicicletta e facendo il mestiere di arrotino, forte solo della sua fede in Dio e del suo bisogno di libertà vera. L’essersi fatto nomade non gli impedisce di seguire le vicende del suo tempo – l’Italia degli anni di piombo – e di portarne le stigmate nel proprio cuore. “Gli doleva – afferma il racconto, chiaramente autobiografico – soprattutto una società presaga di ulteriori sfasci, involuzioni, tempi neri e che non trovava la forza morale di essere diversa. In questo più ancora lo provava lo spengimento mediocre dei credenti, dediti al piccolo cabotaggio, mentre negavano la profezia. Si sentiva addosso la suggestione dell’impotenza. Lo avrebbe reso cinico se non avesse avuto il suo ‘Dio familiare’”. Queste parole evocano il motivo, su cui ho scelto di soffermarmi in questa nostra comune riflessione nella Messa crismale: lo spirito di profezia e il rischio contrapposto ad essa che Mons. Agresti definisce “lo spengimento mediocre dei credenti, dediti al piccolo cabotaggio”.

M’invita a questa scelta anzitutto la Parola di Dio ascoltata, a cominciare dal testo del profeta Isaìa (61,1-3.6.8-9), in cui l’inviato del Signore, unto dallo Spirito dell’Eterno, sa di dover “portare il lieto annuncio ai miseri, fasciare le piaghe dei cuori spezzati, proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto”. Il testo applica i compiti elencati ai “sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio”. Si comprende da queste parole che la profezia non s’inventa, non è frutto di carne o di sangue, né tanto meno è un atteggiamento legato al prurito di novità o al desiderio di farsi strada. Si è profeti per dono dall’alto, per vocazione e missione, e si vive la profezia in umile obbedienza all’Eterno, quasi costretti, nella condizione di chi non può sottrarsi a un obbligo che lo sovrasta e che gli chiede tutto. Lo esprime bene una storiella, frutto certo di fantasia, eppure carica di verità. Un vecchio prete, umile e fedele, muore e si presenta al cospetto di Dio. L’Eterno lo accoglie alla Sua presenza e dopo averlo a lungo scrutato, gli dice: “Sai che sei stato un profeta?”. Lui risponde: “Signore, non me n’ero mai accorto!”. Lo spirito profetico è dono ricevuto, e si vive nella docilità di un cuore umile e di una vita donata.

Che cos’è dunque la profezia? Spesso si pensa che essa sia un guardare in avanti, anticipando gli eventi. In realtà, nella Bibbia profezia vuol dire guardare la storia dalla fine, vederla cioè nella luce di Dio e misurarla sulle esigenze della Sua verità e del Suo amore infinito. Ce lo fa capire il brano proclamato dall’Apocalisse (1,5-8), che ci ricorda come solo a Gesù Cristo, “il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re  della terra, che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue”, va data “la gloria e la potenza nei secoli dei secoli”. Sguardo profetico è riferire tutto al sovrano giudizio di Dio, rivelato in pienezza nel Suo Figlio Gesù: è in Cristo che apparirà la verità su ogni cuore, “e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù  della terra si batteranno il petto”. Lui solo è l’Amen, “l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!”. “Amen” richiama in ebraico la parola “’emet”, che vuol dire sia verità che fedeltà, perché nella mentalità biblica la verità è un rapporto di alleanza, una fedeltà nell’amore che non va mai tradita. Ora, la parola “emet” è composta da tre consonanti, “alef”, “mem” e “tau”, che sono rispettivamente la prima lettera dell’alfabeto ebraico, quella centrale e l’ultima, l’inizio, il centro e il compimento del mondo che nelle parole viene rappresentato. Si capisce allora come Gesù, che è “l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene”, è la verità – fedeltà di Dio, nella cui luce tutto va vagliato e giudicato nel suo autentico valore. Il profeta è il testimone della verità, pronto a dirla anche quando fosse rischioso o risultasse addirittura perdente alla luce della logica umana.

Qual è dunque il messaggio profetico e in che senso esso pareva a Mons. Agresti contraddetto dallo “spengimento mediocre dei credenti, dediti al piccolo cabotaggio, mentre negavano la profezia”? È il brano del Vangelo di Luca, oggi proclamato (4,16-21), a farcelo comprendere: nella sinagoga della sua Nàzaret, Gesù legge e commenta il testo del profeta Isaìa, prima richiamato. Il suo commento si riassume in una frase, che risulta scandalosa alle orecchie e alla mente dei suoi uditori: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Gesù annuncia la buona novella ai poveri qui e ora, proclama la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi oggi, contagia libertà agli oppressi e grazia ai peccatori del nostro presente. Nega, allora, la profezia chi guarda ai poveri – per esempio agli immigrati che fuggono dalla disperazione e bussano alle nostre porte – solo come a un problema o a un fastidio da evitare; chi considera i prigionieri delle schiavitù del nostro tempo – drogati, alcolisti, dipendenti dalle alienazioni prodotte dal mondo virtuale della rete… – solo come a colpevoli che si sono cercati la loro punizione, senza muovere un dito per aiutarli; chi giudica la cecità e lo smarrimento di tanti di fronte alla verità come la conseguenza inevitabile di scelte sbagliate, e non si adopera a testimoniarne la luce; chi, insomma, agli oppressi di oggi non si impegna più a dire una parola di speranza e a donare una possibilità di liberazione. Parimenti, nega la profezia chi non chiama per nome il male, chi chiude gli occhi di fronte allo scandalo dato specialmente dai potenti e non ne denuncia l’intollerabilità in nome di un calcolo politico, di un’alleanza di potere, di un volgare interesse.

Lo “spengimento mediocre dei credenti, dediti al piccolo cabotaggio, mentre negano la profezia” può riguardare, insomma, tutti, specialmente noi pastori, che pure dovremmo proporci come guide affidabili del popolo a noi affidato, fari nella notte, lampade poste a illuminare la via. Il rischio è che non scorra più limpida attraverso di noi l’acqua salutare del Vangelo, e che possa un giorno venirci imputato di essere stati conniventi con una grandezza mondana, con un potere malato, con la dittatura dell’apparenza. Quanto vorrei chiedere al Signore per me e per tutti noi, carissimi fratelli presbiteri e diaconi, è pertanto una più grande libertà di cuore, una lungimiranza veramente evangelica, una capacità di pensare in grande, per sognare il sogno di Dio ed essere pronti a pagare il prezzo più alto perché esso prenda corpo nella vita degli uomini. Lo invoco con le parole di un cristiano d’altri tempi, che seppe credere nella forza della profezia di Gesù e la visse fino in fondo, pagando con la vita il coraggio della sua testimonianza: Tommaso Moro. Lord Cancelliere del Re d’Inghilterra, andò incontro al martirio pur di non rinnegare la propria coscienza piegandosi ai soprusi del Sovrano e facendosi connivente con la Sua vita corrotta. Prigioniero nella Torre di Londra in attesa dell’esecuzione, scrisse tra l’altro questa preghiera, che vorrei facessimo nostra:

 

Dammi la Tua grazia, Signore buono,

per stimare un nulla il mondo.

Per aggrapparmi a Te con la mente

e non dipendere dalla bocca degli uomini…

Per essere contento anche di restare solo.

Per non desiderare il consenso del mondo…

Per pensare volentieri a Te.

Per invocare pietosamente il Tuo aiuto.

Per appoggiarmi al Tuo conforto.

Per sforzarmi continuamente d’amarTi.

Per riconoscere la mia viltà e la mia miseria.

Per umiliarmi e abbassarmi sotto la Tua mano potente.

Per piangere i miei peccati.

Per sopportare pazientemente le avversità…

Per essere lieto delle tribolazioni.

Per camminare nella via stretta che conduce alla vita.

Per portare la croce con Te, Cristo.

Per ricordare le ultime cose…

Per avere continuamente in mente

la passione che Tu soffristi per me…

Per stimare un nulla la perdita della ricchezza del mondo,

quella degli amici, della libertà, della vita,

onde possedere Te… Amen.

 

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